Domenica XXIX del Tempo Ordinario.
A Dio ciò che è di Dio
Gesù giunge dalla Galilea per la festa annuale della Pasqua a Gerusalemme. Entrando in città acclamato dalla gente (Mt 21,1-11), entra subito nel tempio da dove caccia i venditori (Mt 21,12-16). Anche se risiede a Gerusalemme, passa le notti fuori dalla città e ritorna poi al mattino, (Mt 21,17). La situazione è molto tesa, i suoi oppositori vorrebbero catturarlo ma hanno paura (Mt 21,45-46).
Quindi il contesto del vangelo di questa domenica sul tributo a Cesare si colloca in questo insieme di conflitti di Gesù con le autorità: dopo la discussione con i sacerdoti e gli anziani sull’autorità di Gesù (Mt 21,23-27) viene la parabola dei due figli, in cui Gesù denuncia l’ipocrisia di alcuni gruppi (Mt 21,28-32) e seguono le due parabole dei vignaioli assassini (Mt 21,33-46) e degli invitati che non vogliono partecipare al banchetto nuziale (Mt 22,1-14).
Ora, nel testo di questa domenica appaiono i farisei e gli erodiani disposti a tendere una trappola a Gesù e chiedono la sua opinione a proposito del pagamento del tributo destinato ai romani. Era un assunto polemico che divideva l’opinione pubblica: se Gesù avesse risposto “devi pagare!” potevano accusarlo, insieme alla popolazione, di essere amico dei romani; se invece lui avesse detto “non devi pagare!” potevano accusarlo, con le autorità romane, di essere un sovversivo. Una strada senza uscita!
Gesù si rende conto dell’ipocrisia. Nella sua risposta, non perde tempo in discussioni inutili, e va direttamente al nucleo della domanda: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?” Loro rispondono: “Di Cesare!”. Gesù ne trae la conclusione: “Allora, rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio!”.
Di fatto loro riconoscevano già l’autorità di Cesare: usavano le sue monete per comprare e vendere. Ma a Gesù interessa che “diano a Dio quello che è di Dio”, cioè che siano disposti a praticare la giustizia e l’onestà secondo le esigenze della Legge di Dio, perché a causa della loro ipocrisia negavano a Dio quello che gli era dovuto; e che siano anche disposti a restituire a Dio quel popolo che si era allontanato da Dio, perché con i loro insegnamenti avevano bloccato il suo accesso al Regno.
Se nelle moneta vi era l’immagine di Cesare, l’immagine di Dio è nell’uomo creato a “sua immagine e somiglianza” (Gen 1,27). Di fronte a Cesare c’è un ordine più alto, quello di Dio, cui occorre rendere ciò che gli appartiene. A Dio bisogna offrire tutta la propria persona (cf. Rm 12,1)! È alla luce di questo primato che va relativizzato ciò che compete a Cesare: se il potere politico pretende per sé l’adorazione che spetta a Dio –come faceva l’imperatore–, il cristiano non è tenuto a dargliela; se l’autorità statale può richiedere il rispetto (cf. Rm 13,7), il timore va riservato solo a Dio (cf. 1Pt 2,17). Il credente in Gesù Cristo è colui che «sta nel mondo senza essere del mondo» (cf. Gv 17,11-16), che abita con piena lealtà la città degli uomini ma la cui vera cittadinanza è nei cieli (cf. Fil 3,20). Restituire a Dio la nostra vita, significa non sentirsi mai padroni della nostra esistenza, ma vivere come figli piccoli, bisognosi di tutto, certi però del suo amore fedele.
Come Gesù, anche i cristiani delle comunità cristiane della Siria e della Palestina, per le quali Matteo scriveva il suo vangelo, erano accusati e spesso interrogati dalle autorità che si sentivano a disagio per la loro testimonianza di vita. Leggendo questi episodi della vita di Gesù nei quali si descrivano i conflitti di Gesù con le autorità del tempo si sentivano confortati e prendevano coraggio per continuare il cammino.